martedì 11 dicembre 2012

Napoli Monitor numero 51


Tonino, l'uomo artigiano
Alla vista di centinaia tra bottiglie, vasi, oliere ci è ritornato alla mente quando a un certo punto dell’Otello, Jago dice che la vita è come una polenta. Prende la forma della caldara dov’è rovesciata. Ma qual è questa forma? – si chiede – La forma della superficie della polenta contro la parete della caldara, o la forma della parete della caldara che contiene la polenta?
Se queste domande, antiche e invincibili, ci tornano alla mente mettendo piede nel laboratorio della SolimeneArt ci sarà pure un motivo. È un luogo piccolo, raccolto. Dove le persone che ci lavorano sono in prossimità anche fisica tra loro. Secondo noi, ma non ci giuriamo, alla chiusura, quando le luci sono spente, i mille oggetti parlano tra loro: sussurrando, animandosi, talvolta litigando. Tanto che non sono rari i pezzi rovinati al suolo ritrovati a una nuova apertura.
È la bottega di Tonino Solimene, discendente diretto di una famiglia di grandi ceramisti vietresi. Risalendo di generazione in generazione, forse potremmo arrivare agli instancabili tornianti della Magna Grecia. Tonino è un uomo appassionato, energico, di una solarità contagiosa. Ascoltandolo rievocare riti e metodi di lavorazione andati pressocché perduti si avverte in pieno la profondità del baratro in cui ci siamo lanciati. A evitare lo schianto – adesso ci appare con chiarezza – c’è un paracadute di nome Pierfrancesco, suo figlio, che insieme a Rosario Vicidomini, pittore straordinario, hanno raccolto il testimone e pensato bene di traghettarlo verso nuove sponde. I due, con Peso alle immagini, ciclo di laboratori svoltisi nel corso di quest’ultima estate, hanno fatto incrociare una tradizione millenaria con una dozzina tra illustratori, fumettisti, pittori, giovani d’idee oltre che d’anagrafe. Il risultato di questi incontri sarà visibile in una mostra itinerante, che dal 14 dicembre al 11 gennaio sarà a Napoli nella galleria Hde, piazzetta Nilo, 7. Nel frattempo lasciatevi incantare dal racconto, frammentato perché irrisolto, di questo maestro che contiene e allo stesso tempo dà e fa dar forma a saperi millenari.
Vietri, cronache dei nostri tempi è il titolo del documentario di Zavattini che Tonino ci mostra nel corso della conversazione. «Questa è Vietri, tutta distrutta dalle alluvioni. Questa è la fabbrica nel ’54. Io avevo cinque anni. Ecco, questo è mio padre». La voce dal documentario di Zavattini: L’arte del vasaio era chiamata l’arte del torniante. Sempre uguale o ben poco modificato è il tornio del vasaio dei nostri tempi. L’artiere muovendo il rozzo tornio modella senza tregua sul piatto girevole la massa informe di argilla, finché il miracolo della ruota dà sagoma alla materia e ne fa nascere l’oggetto sotto l’ala calda dell’industriosa mano…
«Questo è il forno. Qua si chiudeva totalmente con i mattoncini, argilla mischiata con i peli d’asino. Per non far uscire il calore, per far raggiungere novecento gradi. La tecnica è sempre la stessa». Ancora la voce del documentario: Un’operazione che le macchine potrebbero eseguire a tempo di primato garantendo una straordinaria costanza di risultati. Ma nessuna macchina ha l’estro che fa di una pennellata qualcosa di eloquente come una parola. Sulla superficie scabra dell’oggetto adesso l’artigiano scrive il suo racconto, completando il processo fantastico iniziato sul blocco informe di argilla. Non usa alfabeto, usa i toni dei sette colori elementari… toni ispirati… dal cielo, dai tramonti e da piccole grandi cose della sua esperienza quotidiana. È sempre un racconto allegro e ottimista come il piatto e il bicchiere sul quale viene dipinto. Oggetti destinati ad allietare una mensa…
«Questo si esportava in America. Dopo lo sbarco del 1943 a Salerno, sono venuti gli inglesi, sono stati qua, hanno visto le produzioni di ceramica, gli sono piaciute, e compravano. E si è avuto uno scambio intenso con gli americani. Infatti queste casse che vedi vanno in America. Vedi? Buffalo, New York…».
…Le ceramiche di Vietri erano note nel mondo dell’antica Roma. Dopo un lungo periodo di decadenza… »Prima, quando stavamo giù a Marina di Vietri, quando era maltempo il mare entrava nella fabbrica. Ma che scherziamo? E chi la deve fare più, quella vita! L’hanno fatta veramente. Poveri a loro… guarda a questi, guarda… quest’imbarcazione andava a pescare. Qua è giù a Marina di Vietri… Adesso ti fa vedere la fabbrica. Eccola. Questa qua è la curva di Ciccone, si chiama così perché ci morì Ciccone. All’epoca buttavano l’immondizia della ceramica dal parapetto di questo curvone, allora la carretta si alzava, il ciuccio stava dietro. Capitò che cadde la carretta con tutto il ciuccio, e pure il padrone andò a finire giù, si chiamava Ciccone. La storia me la disse mio padre. Non ricordo quando successe. E da allora tutti la chiamano la curva di Ciccone».
…La fabbrica dei fratelli Solimene… «Questo è mio padre. Sono immagini del’56-58, credo.  Questo sono io da piccolo. Mio padre aveva incontrato a Soleri, l’architetto che costruì la fabbrica, giù a Marina di Vietri. Soleri venne qua con la roulotte. Conobbe mio zio, mio padre e tutti quanti. Parlando gli dissero che volevano costruire una fabbrica di ceramica, così colà, e lui disse: mo vi faccio io il progetto. Ci fece il progetto ma la soprintendenza non lo accettò perché era una struttura troppo moderna a suo tempo… Vedi? Questo è il fratello di mio padre, ne erano tre. Prima era tutta una famiglia. Alla fine ci siamo divisi, succede. Era una società di fatto formata dalla famiglia…
«Io lavoravo sempre, ho iniziato da bambino, dopo la scuola. Dopo aver finito la scuola andai a fare il ragioniere, andai pure a Napoli al liceo internazionale, feci due anni, mi bisticciai con il preside e me ne andai. Quello scemo disse che ero salernitano e ce l’aveva con i salernitani. Stiamo parlando del ’64. Gli diedi uno schiaffo. Dopodiché ho frequentato la ragioneria, mi sono diplomato. Dopo il diploma e il servizio militare ho fatto il ragioniere nella fabbrica di ceramica, poi da ragioniere ad amministratore della società, fino a quando c’era mio padre, nel ’72. Poi ci siamo divisi nell’81… Io manualmente avrei sempre voluto lavorare la creta, ma avevo il compito di fare l’amministratore, però guardavo, parlavo con gli operai, stavo insieme a loro. C’erano cinquanta dipendenti fino al 2000. Gli artisti venivano, ci lavoravano dentro alla fabbrica. Ce n’era uno che lavorava su una materia refrattaria spettacolare. Ma nella storia della Solimene di artisti ne sono passati molti. Io ero bravo a fare il ragioniere, ma preferisco centomila volte lavorare con le mani. Pure quando ero ragioniere, la sera andavo là e lavoravo con la ceramica. A casa mia tengo il camino fatto in ceramica da me. Ho partecipato a una mostra, però non potevo impegnarmi totalmente a questo, le scadenze di contabilità erano continue.
«Per un periodo c’è stato il boom della ceramica, poi dopo il 1970 è cominciato a calare. Nel documentario fa vedere come si lavorava. Negli anni del boom delle costruzioni la gente comprava la ceramica, le mattonelle. Ora no, ora che vuoi fare più, puoi fare solo un laboratorio, se ci riesci. Se tieni la passione riesci, ma se non la tieni è inutile che perdi tempo. Poi le fabbriche stanno chiudendo tutte quante. La fabbrica meccanizzata è finita. Oggi la persona vede il difetto e non capisce che è fatto a mano. Allora tu non compri la ceramica, compri la roba dall’Ikea. I clienti di oggi sono privati, stranieri che vogliono la qualità, amanti della ceramica. Se vieni qua te lo faccio a mano, se poi vuoi il bagno “tipo Vietri”, allora ci stanno le fabbriche che decorano in serie, in serigrafia. Sono standard, non è che si tratta di pezzi che tieni solo tu. Le pennellate non ci stanno proprio, sono fatte tutte a stampa. Per esempio, guarda, qua sono tutte pennellate, invece la serigrafia no, la gente li prende in giro dicendo che è fatta a mano. Qua, per esempio, hanno fatto un trucco, è finto pennellato. Questa invece è fatta a mano.
«Secondo me il futuro è nell’artigianato. Mio figlio deve fare solo questo, un laboratorio piccolo, come s’ingrandisce va a mare con tutti i panni. Se non hai neanche la speranza di tramandare l’arte allora che senso ha? Mio figlio fa questo perché gli piace. Altrimenti non lo faceva. Ce ne sono altri che lo fanno, non troppi ma ce ne sono. Adesso si sta ritornando di nuovo al vecchio, perché i giovani non hanno più un posto di lavoro. A me, per esempio, da giovane piaceva fare il torniante, il mestiere di mio padre, e mio padre diceva no, tu devi andare a fare il ragioniere, devi andare a scuola. Poi tieni il posto fisso, stai tranquillo. Cioè loro non pensavano a fare la ceramica. Anche se avevano avuto l’idea di ingrandirsi, dal piccolo sono andati a fare un’azienda, non era uno scherzo in quel periodo. A Salerno dal ’66 in poi ci fu il boom delle industrie, tutti i ragazzi dell’entroterra scendevano in città e andavano a prendersi il posto fisso, e abbandonavano le terre. Questo è successo nel periodo mio, anni Settanta, le rivoluzioni.
«L’unico modo è quello di tornare un’altra volta al ciuccio. Questo progresso a cosa ha portato? I posti di lavoro nell’industria sono cominciati a diminuire con i macchinari. Le terre sono rimaste incolte. Ora dobbiamo tornare come prima. Se torniamo indietro può darsi che la gente comincia a capire. Dobbiamo fare i sacrifici un’altra volta. In mano a mio nonno il calore dei cavalli scarfava la casa. Il fratello di mio nonno era cocchiere, e lui era torniante. Mio padre non è mai andato al cinema, una volta lo portai io, andammo a vedere King Kong, si pisciò sotto dalle risate. Uscì pazzo da dentro alla sala… Mio padre a cinquantaquattro anni prese la malattia del piombo, il saturnismo, per la ceramica. Lui oltre a fare il tornio faceva il maciniello, cuoceva il piombo, che era la materia prima, perché i colori prima li facevano loro, alcuni si compravano. Lo smalto bianco Vietri lo facevano loro. Prendevano due tipi di sabbia, di Tropea e di Roma e ci mettevano il piombo dentro. Quando facevano il maciniello, durante lo sbarco degli americani si andavano a rubare le batterie da vicino ai carri armati per pigliarsi il piombo. Quando lo squagliavano si faceva giallo e il colore di questo piombo sciolto era polvere gialla, zuccherosa, sentivi lo zucchero nella gola, mio padre mi cacciava fuori perché era cancerogeno. Io andavo là, tuttora mi pare di sentirlo ancora in gola, quel sapore dolce come zucchero. E quello se lo mangiava lui, senza mascherina. Era lo stesso procedimento della pizza, invece delle pizze si metteva il piombo dentro. I colori li facevano con gli ossidi.
«Ora tutti fanno i ceramisti. Prima era bello perché facevi tutto il processo. Compravi i pezzi dalle cave di argilla che stavano a Ogliara. Là stanno i monti tutti di argilla. Veniva quello con il traino, una carretta più grande, il cavallo, il mulo… veniva da Salerno a Marina di Vietri, e portava questo carico di argilla, che si metteva in queste vasche di acqua, i colatoi. E facevano sciogliere l’argilla. Dopo ci stava questo signore che vedi con il cappello, addetto all’argilla, e lui andava dentro, apriva dei bocchettoni per far scendere l’acqua, e rimaneva la melma che mettevano in bacinelle di argilla in cotto per far essiccare l’argilla al sole. Fatto questo loro prendevano e l’ammassavano tutta a un posto, quella serviva per l’anno successivo perché doveva maturare. Poi andava il ragazzo del torniante, pigliava il pezzo di argilla, lo mescolava e faceva ipalletti. Il tornio dell’epoca era a pedale, una ruota e lui con il piede destro che dava la velocità. Mio padre ricordo che faceva i vasi più alti, metteva un ragazzo a pedalare, e lui sopra che diceva al ragazzo la velocità… Dall’argilla facevano la ceramica, e andava alla prima cottura, diventava come un biscotto. Poi ci si dava lo smalto sopra, il bianco, e su quel bianco gli davi tutti i colori oppure lo facevi sul cotto direttamente, e poi lo ricuocevi. In fornace ci stava il masto fuoco che si vedeva solo il fuoco, la temperatura. Era tutto chiuso, rimaneva un buco e lui con l’occhio vedeva il fuoco dentro. Se diceva, a partire dal colore del fuoco, che aveva raggiunto quella temperatura, tappava. Non c’era il termometro, era a occhio.
«Nei colatoi era una bellezza. Io a quel tempo ero piccolo, ci giocavo, ci stava la muffa che ti faceva scivolare e andavi a finire con tutta la testa nell’argilla. Allora mi vedeva questo signore e mi veniva a prendere nella creta. E ci stava una fontana, con la pompa mi sciacquava sano sano e poi mi dicevavavattenne a mare. Venivano i tosatori, venivano a portare i peli degli asini, solo i peli di ciuccio, non quelli di mulo o di cavallo. Anche i pennelli li facevano con i peli di ciuccio. I genitori di mio padre mi facevano pulire i peli degli asini da attaccare vicino all’argilla. Tenevi due mazze come quelle giapponesi, ti sedevi davanti a questa montagna di peli, e bungt bangt, levavi tutta la polvere. Immaginati nel mese di agosto con il sole, giù alla marina di Vietri, il mare a cinquanta metri, il calore che ti scendeva, e questa polvere che ti metteva addosso zecche, pulci. Tutto si azzeccava sulla pelle. Io avevo cinque anni. A un certo punto mi facevo nero per via delle zecche e le pulci. Mio padre mi vedeva e mi diceva vatti a menare a mare. E noi lo facevamo per andare a mare, sennò non ci facevano andare… La fame ci stava. E quando si lavorava, a ogni cottura era festa. Ogni quindici giorni. Sant’Antonio Abate è il patrono dei ceramisti, e si pregava. Quando si accendeva il forno era festa. Si pregava perché doveva uscire bene la cottura. Se usciva male dovevi buttare tutte cose. Mio padre mi diceva che ogni uscita di forno era come se nascesse nu criaturo. Non sapevi se era maschio o era femmina». (andrea bottalico  / cyop&kaf)
Dal numero 51 di Napoli Monitor